Alcune considerazioni del nostro Preside a margine del convegno: Mediterraneo frontiera di pace
Uscite su Toscana Oggi nel numero 8 del 27 febbraio.
Viviamo in un mondo che per la recente pandemia ha scoperto la difficoltà delle relazioni, e al tempo stesso la necessità di queste per scoprire una umanità piena. Dunque, la città e le città, particolarmente quelle che si affacciano sul bacino del Mediterraneo, hanno bisogno di relazioni, e queste relazioni devono diventare ponti fra l’una e l’altra.
Ora, come sappiamo, il termine «ponte» deriva dal vasto mondo del bacino linguistico indoeuropeo. Fra esse spiccano il sanscrito e una lingua liturgica iranica. Solo verso la fine del ‘700 venne scoperto il collegamento tra il sanscrito e una serie di lingue provenienti di un’origine comune, il protoindoeuropeo, che comprende la maggior parte delle lingue d’Europa, vive ed estinte, che attraverso il Caucaso e il Medio Oriente da un lato, e la Siberia occidentale e parte dell’Asia Centrale dall’altro, sono arrivate a coinvolgere l’Asia meridionale. Ebbene, il termine del sanscrito da cui nasce la nostra parola «ponte» ha di fatto due significati: il primo significato è “via, sentiero, cammino”; il secondo è invece, inaspettatamente, “mare”.
A nessuno verrebbe in mente di accostare alla parola latina, da cui deriva il nostro “ponte”, il termine greco pontos, che invece significa “mare”. In realtà il ponte è il collegamento, la congiunzione, tra due strade distanti fra loro, che il ponte unisce, per crearne una nuova.
Ma è realmente possibile vedere un legame fra un ponte e il mare? Di fatto, il Mar Nero era chiamato dai greci Ponto Eusino, ossia “mare ospitale” (il termine più antico, tuttavia, era però il più attuale “mare inospitale”).
Perché nell’Europa greca e latina la stessa parola può indicare lo “scavalco” di una valle, per esempio quella scavata da un fiume – è la ragione principale per cui costruiamo ponti da noi – ed un mare che permette di “scavalcare”, cioè accorciare i percorsi fra due terre, separate da una depressione o da un fiume?
I Vangeli sono unanimi nel dirci che un tratto di mare è la via più breve fra due terre, due città situate sulle rive del mare di Galilea.
La creazione di strade, di percorsi, ha anche un valore religioso, e non solo nelle Scritture. Se il “sacro” indica la separazione, il “profano”, che sembra opporvisi, è in realtà ciò che è potenziale in dialogo con il sacro: il termine, è infatti composto di pro, «davanti» e fanum, «tempio, luogo sacro». Quindi designa ciò che «che sta fuori del sacro recinto» ed ha bisogno di essere collegato con esso: l’umano necessita di entrare in contatto con il divino, attraverso una strada, come dimostra da noi un ponte, oppure, in altre terre, un tratto di mare. Si presenta cioè un bisogno ineludibile di avvicinare l’umano al divino.
E qui emerge anche il ruolo di una facoltà di teologia in Firenze, che si dispone ad essere ponte e relazione fra le varie fedi e le realtà umane nelle quali esse si esprimono. La facoltà di teologia è una sorta di canale di ascolto, che accoglie componenti di varia origine, in modo da far emergere il bisogno e la necessità di confronto e dialogo.
La religione e la fede sono senza dubbio fra le componenti più importanti, quanto inascoltate, nel momento in cui anziché cercare vie nuove per accompagnare la crescita dei popoli ci rinchiudiamo in questioni che non risolvono ma approfondiscono i conflitti.
Dialoghi e relazioni, ponti e non muri, sono il destino che attende questa umanità che ha bisogno di testimoni, oltre che di profeti, di pensatori coraggiosi che non hanno paura di indicare queste strade avendole vissute dentro la loro esperienza. Gli incontri che si sono tenuti negli ultimi decenni fra le religioni principali e i loro esponenti più importanti sono qui a testimoniare come un futuro di questo tipo è possibile.
La città globale, che è il modo con cui questo mondo vive, deve avere cittadini liberi di potersi esprimere manifestando quell’impulso profondo che c’è nel cuore di ogni creatura umana per insegnare ai potenti della terra che davanti a noi c’è solo la strada verso la pace. Nessun’altra è possibile. Come ebbe a dire Pio XII: «Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra».
Ecco, perciò, che dal ponte nasce anche il pontefice, il «sacerdote che costruisce la via». Se nell’antichità, evidentemente a Roma, il nome sembra designare coloro che curavano la costruzione del ponte sul Tevere, come sembra dire l’origine del nome, in numero oscillante da 5 a 9, è maggiormente vero che in realtà i pontefici stabilivano in base a quali regole un qualsiasi rito – sacrale, processuale o negoziale che fosse – doveva essere compiuto, perché potesse considerarsi valido, e tali regole erano di volta in volta comunicate a chi lo richiedesse. Quindi, al contrario di altri sacerdoti, i pontefici non assolvevano a precise funzioni di culto, ma ne ponevano le condizioni.
Essi erano presieduti da un pontefice massimo elettivo, finché nel 12 a.C. Augusto fece propria la carica. Essa sarebbe rimasta prerogativa di tutti i successivi imperatori, fino all’era cristiana inoltrata, fin quando nella Chiesa cattolica, il titolo fu presto usato per indicare i vescovi, e in particolare il vescovo di Roma.
Con Tertulliano (155-230), per la prima volta, il vescovo di Roma è chiamato pontefice massimo.
Questa è un’altra storia, ma vediamo bene quanto è difficile per il vescovo di Roma indicare una via, senza che non sorgano frange estreme intenzionate a demolire il suo ruolo, nell’attaccare la persona. Nuovi e devastanti distruttori di ponti, destinati comunque a fallire. Lo impediscono la fede evangelica… e l’eredità delle lingue indoeuropee.